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Leggiamo nel modo sbagliato?

La lettura è una medicina. Non solo per l’anima. Anche per il nostro cervello e il nostro corpo. È dimostrato scientificamente che leggere:

Non lo scopriamo certo adesso. Lo sapevano anche gli antichi. La prima biblioteca conosciuta, nell’antico Egitto, ha un’iscrizione che recita: 

“Casa della guarigione per l’anima”.

Gli antichi, però, leggevano in modo diverso da come facciamo noi oggi. Cioè fino al X secolo circa, leggere era sinonimo di leggere ad alta voce.

La lettura silenziosa, quindi, era considerata una vera e propria stranezza. E così è stato per molto tempo. Walter Benjamin direbbe che anche la lettura ha perso la sua “aura”. E una parte del suo romanticismo.

Infatti prima che la radio, la TV, gli smartphone e lo streaming entrassero nei salotti, un tempo le coppie affrontavano le ore serali leggendo ad alta voce.

Quello che si è scoperto di recente è che molti dei benefici della lettura richiedono che questa sia fatta ad alta voce, sempre, con tutti quelli che conosciamo.

La lettura ad alta voce è un processo cognitivo particolare, più complesso della semplice lettura silenziosa, del parlare o dell’ascoltare. Noah Forrin, che ha condotto ricerche sulla memoria e sulla lettura presso l’Università di Waterloo, in Canada, ha detto che coinvolge diverse funzioni: il controllo motorio, l’udito e l’autoreferenzialità, tutte operazioni che attivano l’ippocampo, una regione del cervello associata alla memoria episodica. Rispetto alla lettura silenziosa, l’ippocampo è più attivo durante la lettura ad alta voce, il che potrebbe spiegare perché quest’ultima è uno strumento di memoria così efficace. 

Quindi, anche se un audiolibro narrato da Meryl Streep potrebbe piacervi, lo ricordereste meglio se ne leggeste alcune parti ad alta voce, soprattutto se lo faceste a piccoli pezzi, solo un breve passaggio alla volta, dice Forrin. 

Ci sono dei generi, come la poesia e la narrativa, che sarebbe uno spreco non leggere ad alta voce. Un romanzo letto ad alta voce ci dà accesso a sfaccettature dell’esperienza umana altrimenti irraggiungibili, aiutandoci a elaborare le nostre emozioni e i nostri ricordi, sostiene Philip Davis, professore emerito di letteratura e psicologia all’Università di Liverpool. La poesia, invece, può indurre picchi emotivi e aiutarci a identificare ed elaborare un’emozione dentro di noi.

Secondo Davis, una poesia o una storia letta ad alta voce è particolarmente coinvolgente, perché diventa una presenza viva nella stanza, con una qualità più diretta e penetrante, simile alla musica dal vivo. 

Come se non bastasse, è stato dimostrato che anche le persone affette da dolore cronico possono trarre sollievo partecipando a gruppi di lettura ad alta voce.

Leggere ad alta voce, quindi, anche quando siamo soli e non c’è qualcuno ad ascoltarci, è una pratica che dovremmo recuperare e rivalutare: ricorderemo di più, capiremo meglio il contenuto del libro e allargheremo il nostro orizzonte emotivo.

Il valore quantistico delle edizioni Adelphi

Nelle case editrici, a dare un contesto (e forse anche un’aura) a un libro pubblicato ci pensano le Collane. Queste non definiscono solo un genere (poesia, narrativa, saggistica, varia), ma, talvolta, anche uno stile, una tradizione, affinità e parentele. Un libro di una Collana, quindi, comunica e si nutre anche dei significati degli altri volumi della stessa Collana. Un lettore, tuttavia, è libero di ignorare completamente gli altri titoli e l’entanglement che li lega tutti insieme.

Il catalogo dei libri delle edizioni Adelphi, però, va ben al di là delle parentele di Collana.

Lo stesso libro, anche se già edito e passato per fiere, librerie e mercatini, se ripubblicato da Adelphi, sembra trasfigurarsi.

Perché si ha l’impressione di leggere un libro diverso?

È come se le edizioni Adelphi avessero un “valore quantistico”. Proprio tirando in ballo la meccanica quantistica Guido Vitiello prova a spiegare questo fenomeno:

Formuliamo dunque un “principio di complementarità” editoriale: i libri Adelphi possono esser considerati, a seconda del tipo di osservazione, come onde o come particelle. Sotto l’aspetto corpuscolare, “Giustizia” è lo stesso libro già proposto da Marcos y Marcos: non uno iota è cambiato. Se lo consideriamo sotto l’aspetto ondulatorio, però, tutto appare diverso: il romanzo di Dürrenmatt diventa una delle carte del solitario che Roberto Calasso gioca (in sanscrito stretto, c’è da giurarci) con la propria mente. È lui stesso, d’altro canto, a sostenere che l’arte dell’editoria è “la capacità di dare forma a una pluralità di libri come se essi fossero i capitoli di un unico libro”.

Il Dürrenmatt di Adelphi non è quello di Marcos y Marcos proprio come il Kant di Adelphi non è quello di Laterza, il Wittgenstein di Adelphi non è quello di Einaudi, lo Sciascia di Adelphi non è quello di Sellerio. La nuova cornice impone di leggerli come libri a sé stanti e, insieme, come glosse all’opera di Calasso; come corpuscoli ben definiti e come vibrazioni di quel grande moto ondulatorio che è il catalogo Adelphi.

Un lungo serpente di pagine

Roberto Calasso, nell’introduzione a una raccolta di risvolti, “Cento lettere a uno sconosciuto“, scrive:

Che cos’è una casa editrice se non un lungo serpente di pagine? Ciascun segmento di quel serpente è un libro. Ma se si considerasse quella serie di segmenti come un unico libro? Un libro che contiene in sé molti generi, molti stili, molte epoche, ma dove si continua a procedere con naturalezza, aspettando sempre un nuovo capitolo, che ogni volta è di un altro autore. Un libro perverso e polimorfo, dove si mira alla poikilÍa, alla «variegatezza», senza rifuggire i contrasti e le contraddizioni, ma dove anche gli autori nemici sviluppano una sottile complicità, che magari avevano ignorato nella loro vita.

Contenitori di moltitudini o libri-cipolla

In un altro articolo, tra l’erudito e l’ilare (un po’ la sua cifra stilistica) Guido Vitiello si spinge più in là, parlando della moltitudine di livelli di lettura e significato presente in molte pubblicazioni Adelphi, che li trasforma in libri-cipolla, da sfogliare velo dopo velo:

Usurpandone una bella formula, diremo che “Le nozze di Cadmo e Armonia”, e per estensione tutta l’opera del suo autore, può leggersi «a modo di un cavolo o carciofo dalle infinite foglie come il libro universale che Letizia Alvarez di Toledo propose a Borges di sostituire alla sua Biblioteca di Babele». Cavoli, carciofi o anche, se piace, cipolle come quella del “Peer Gynt”. Sono simboli triviali, certo: ma ciò che sta in basso, sul banco del verduraio, è come quel che sta in alto, nei cieli della «letteratura assoluta». E cavoli, carciofi e cipolle – absit iniuria – si applicano meravigliosamente a uno scrittore che del principio delle «infinite foglie», o degli infiniti velami, ha fatto il cardine della sua opera: quasi non c’è pagina di Calasso in cui non si dica che una verità è la guaina di un’altra, la quale a sua volta è la fodera di un’altra rivelazione; quasi non c’è frase dove non si parli di maschere, travestimenti, specchi, teatri delle ombre, superfici che nascondono altre superfici, danze dei sette veli che non conducono mai alle nudità della signorina Alétheia, alla verità qual è, ma sempre e solo a ulteriori e più intimi tegumenti.

Un libro edito Adelphi diventa quindi, – citando sempre Vitiello – nei casi migliori, una sontuosa Wunderkammern in cui è dilettoso smarrirsi, una camera delle meraviglie che compone uno dei palazzi più degni della nostra editoria: il catalogo Adelphi, quell’ininterrotto soliloquio fatto di libri e di autori che è un’estensione delle idiosincrasie del suo animatore, l’elusivo e affabile Roberto Calasso.

Storia condensata delle forme di poesia non convenzionale

Amo la poesia e le forme letterarie brevi. Questo articolo, frutto di una piccola ricerca, raccoglie i generi poetici originali e fuori dagli schemi tradizionali. 

I versicoli 

I versi usati nell’Allegria da Giuseppe Ungaretti, sono conosciuti come versicoli e rappresentano un nuovo linguaggio lirico di grande intensità ed essenzialità. La riduzione delle parole sullo sfondo della pagina bianca e la frantumazione dei versi tradizionali, spesso trasformati in brevissimi sintagmi o parole singole, diventa una nuova sintassi lirica che va ben al di là di ogni sperimentalismo precedente.

Per Ungaretti la poesia deve essere priva di ogni inutile ornamento letterario. La parola poetica deve essere purificata da ogni sovrastruttura retorica per poter meglio aderire al contenuto. Il compito della poesia non è quello di placare o addolcire, ma di esprimere il dolore e la difficoltà della vita in modo autentico. La poesia deve essere nuda e scarna per poter meglio esprimere questi sentimenti.

Anche Giorgio Caproni ha utilizzato la forma del versicolo. In “Versicoli quasi ecologici” utilizza un linguaggio semplice e diretto per esprimere la sua preoccupazione per lo stato attuale dell’ambiente e per il futuro del nostro pianeta. 

⬇️ Ascolta il podcast “Versicoli”. ⬇️

Versicoli, un podcast di Paolo Musano

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Gli haiku

Gli haiku sono una forma poetica tradizionale giapponese, composta da tre versi di 5, 7 e 5 sillabe rispettivamente. Gli haiku tradizionali descrivono la natura e le stagioni, spesso utilizzando immagini potenti e evocative per creare un’atmosfera contemplativa.

Anche Jack Kerouac ha scritto un gran numero di haiku, adattando ai canoni occidentali le liriche giapponesi. Queste poesie brevi e semplici sono state composte tra il 1956 e il 1966, seguendo le suggestioni provenienti dalla cultura orientale. Per Kerouac, gli haiku sono poesie che utilizzano parole semplici e la loro comprensione dipende dalla libertà mentale del singolo, non dal suo grado di cultura. L’idea è che questi componimenti debbano essere compresi tanto dal professore universitario quanto dall’analfabeta, per questo motivo i riferimenti culturali vanno evitati.

Tra i poeti italiani che hanno sperimentato questa forma breve c’è Andrea Zanzotto. Gli haiku di Zanzotto sono stati scritti in una forma chiamata pseudo-haiku, poiché si è ispirato liberamente ai codici della tradizione giapponese, adattandoli alle sue esigenze creative.

⬇️ Leggi la mia raccolta di haiku. ⬇️

Haiku di Paolo Musano

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I koan buddisti

I koan buddhisti sono enigmi o paradossi utilizzati nella pratica Zen. Sono spesso composti da una domanda o un’affermazione che sembra illogica o contraddittoria, come: qual è il suono di una mano sola? La loro brevità e concisione invita a considerare la natura del suono e del silenzio e il suo rapporto con la percezione e la realtà. L’uso dei koan nella pratica Zen è stato descritto come un modo per “rompere” la mente concettuale, liberando il praticante dalle idee preconcette e dalle categorie consolidate, permettendogli di vedere la realtà in modo nuovo e diretto. 

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I tweet (quand’erano di 140 caratteri)

Twitter era il mio social network preferito. Mi piaceva soprattutto nella sua prima incarnazione, quando il numero di battute utilizzabili era limitato a 140 caratteri (meno di un SMS, che ne aveva 160).

Il limite dei 140 caratteri costringeva a concentrare pensieri e sentimenti. Non era semplice, ma era un esercizio intellettuale interessante. E molto poetico (infatti lo sforzo creativo richiesto è simile a quello per scrivere un haiku).

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I frammenti incompiuti

I frammenti incompiuti, brevissime tracce lasciate da autori poco conosciuti, sono pieni di suggestioni poetiche. Ad esempio i frammenti del filosofo greco Eraclito, arrivati fino a noi perché citati da altri autori antichi come Platone e Aristotele, sono stati scritti in forma di aforismi, brevi e concisi, e spesso privi di contesto. Il primo aspetto che salta all’occhio nei frammenti di Eraclito è il suo stile ermetico e criptico. Il filosofo nutriva sfiducia nella possibilità che i suoi scritti potessero essere compresi dalla maggior parte degli uomini. Un esempio di questo stile è il famoso frammento “Panta rhei” (Tutto scorre), che dice: “A chi discende nello stesso fiume sopraggiungono acque sempre nuove”. Questa metafora può essere interpretata in molti modi, ma in generale esprime l’idea che tutto cambia continuamente e che non è possibile tornare indietro nel tempo.

Friedrich Nietzsche, in Umano, troppo umano, scrive:

Come le figure in rilievo agiscono così fortemente sulla fantasia per il fatto di voler uscire, per così dire, dalla parete e, trattenute da qualche parte, di arrestarsi improvvisamente: così l’esposizione incompleta – al modo del rilievo – di un pensiero, di un’intera filosofia, è talora più efficace dell’esposizione esauriente: si lascia di più al lavoro di chi guarda, questi viene spinto a continuare e a compiere ciò che gli si staglia davanti in così chiaroscuro, e a superare egli stesso quell’ostacolo che le aveva fino allora impedito di balzar fuori compiutamente.

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Gli aforismi

L’aforisma è un genere letterario famoso per la brevità e l’efficacia delle sue espressioni. La sua origine risale all’antichità greca. Negli ultimi due secoli, l’aforisma ha avuto una grande fioritura, diventando una forma letteraria pungente e brillante. Nonostante la sua brevità, l’aforisma è in grado di esprimere concetti profondi e densi.

L’aforisma, nella filosofia moderna, è un modo per sincopare l’esposizione, d’un canto, e d’altro canto per lasciare che i pensieri, senza obbligo di articolazione, tambureggino come grandine sul lettore, senza gerarchia e rompendo il procedere lineare delle filosofie deduttive e dimostrative. Uno dei maestri in questo tipo di scrittura è il grandissimo e già citato Nietzsche.

⬇️ Leggi i miei aforismi. ⬇️

Aforismi di Paolo Musano

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Le proposizioni logiche di Wittgenstein

Il filosofo Ludwig Wittgenstein ha proposto una teoria rivoluzionaria delle proposizioni logiche nel libro Tractatus Logico-Philosophicus del 1921. 

Secondo la sua visione, le proposizioni logiche sono la chiave per comprendere il mondo e il linguaggio in modo corretto. 

Le proposizioni logiche sono composte da elementi atomici, come le parole del linguaggio, che rappresentano gli oggetti e gli stati del mondo. Questi elementi atomici sono poi combinati in relazioni logiche, come la negazione, la connessione e la tautologia, che sono essenziali per la comprensione del mondo e del linguaggio.

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Gli epigrammi

Gli epigrammi sono un componimento poetico di breve durata, ma di grande potenza espressiva. La loro brevità e concisione li rendono capaci di esprimere concetti e idee in modo diretto e preciso. Gli epigrammi sono stati utilizzati per diversi scopi attraverso i secoli e in molte lingue e culture diverse, ma sono particolarmente famosi per la loro presenza nella letteratura greca e romana antica. 

Gli epigrammi greci erano spesso scritti su monumenti funerari o su monumenti celebrativi, e servivano a celebrare la vita del defunto o a commemorare un evento o una persona. Gli epigrammi romani erano scritti per onorare gli dei, gli eroi o per celebrare gli eventi importanti. Gli epigrammi non sono stati solo utilizzati per scopi celebrativi, ma anche per scopi satirici e ironici, come nel caso degli epigrammi di Marziale, che utilizzava l’epigramma per criticare i costumi sociali e le persone famose della sua epoca. 

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I pensieri dello Zibaldone di Leopardi

lo Zibaldone di pensieri di Giacomo Leopardi è un’opera unica nella letteratura italiana del XIX secolo. È quasi un viaggio nelle mente del poeta marchigiano, un diario molto personale dove le parole scritte a mano trasportano in un mondo fatto di riflessioni, poesie e traduzioni. 

La struttura aperta dello Zibaldone permette di entrare in contatto con le emozioni e i sentimenti di Leopardi. L’eterogeneità dei contenuti è sorprendente, con argomenti che vanno dalla filosofia alla letteratura, dalla mitologia alla scienza. In questo tesoro letterario si possono trovare riflessioni sulla natura dell’uomo e dell’universo, poesie d’amore e di morte, traduzioni di classici greci e latini e osservazioni sulla lingua e la letteratura italiana. 

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Gli sketches di Jack Kerouac

Gli sketch di Kerouac sono schizzi, impressioni, scritti utilizzando la tecnica della prosa spontanea, cioè un modo di scrivere senza coscienza, in semitrance, che libera l’inconscio senza censure.

I modelli a cui si è ispirato lo scrittore di Lowell sono l’action painting di Jackson Pollock, la pittura automatica di André Masson, le atmosfere urbane e desolate di Edward Hopper e le libere improvvisazioni di Charlie Parker. Tutto ciò che vedeva Kerouac era importante: tutto ciò che attirava la sua attenzione e lo stimolava a scrivere diventava inestimabile.

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I blues di Jack Kerouac

Kerouac in Mexico City Blues si descrive come “un poeta jazz che suona un lungo blues durante una jam session una domenica pomeriggio.” La sua forza creativa risiede nel proprio flusso di coscienza, ossia nella capacità di seguire un ritmo che è totalmente individuale: « …i miei pensieri variano e a volta passano da un chorus all’altro o da metà di un chorus a metà di quello dopo».

I cosiddetti chorus sono le strofe, o meglio i ritornelli che intona al ritmo di musica jazz o blues. La sovrapponibilità di un chorus sull’altro significa che i versi posti tra essi sono da intendere come un assolo di jazz che segue diversi ritmi, senza un’idea precisa della direzione che prenderà. Una serie di variazioni sul tema, insomma, di assoli di sax che si sa da dove partono ma non dove vaghino e vadano a finire.

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Le note a piè di pagina

Anche le note a piè di pagina, nei libri di alcuni autori, possono essere considerate una forma di poesia. Scrive Roberto Bazlen: “Io credo che non si possa più scrivere libri. Perciò non scrivo libri. Quasi tutti i libri sono note a piè di pagina gonfiate in volumi (volumina). Io scrivo solo note a piè di pagina.” Note in margine al mondo, note in margine ai libri. Per lui queste note non possono più diventare un libro, un’opera compiuta. Devono restare doppiamente irrelate e in calce a un testo che forse non c’è o comunque è sfuggente. Anche Carlo Dossi la pensa in maniera simile: “Una volta si scrivevano libri, oggi frammenti di libri. Mangiata la pagnotta non restano che le briciole.”

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Le scorciatoie di Saba

Le scorciatoie di Umberto Saba sono una raccolta di poesie scritte dall’autore italiano tra il 1913 e il 1918, e pubblicate per la prima volta nel 1920. Questa raccolta è stata considerata una delle opere più importanti della poesia del Novecento italiano, per la sua capacità di descrivere la realtà quotidiana con un linguaggio semplice e diretto. Le scorciatoie di Saba sono brevi componimenti in prosa, di taglio scorciato ed incisivo, che hanno l’accento della poesia e il rigore dell’aforisma. Non sono sentenze fulminanti, ma discorsi argomentati. I riferimenti principali sono i ricordi di Guicciardini e i pensieri di Leopardi e Nietzsche. I temi esplorati sono l’amore, la solitudine, la malinconia e il senso della vita, ma anche l’esperienza quotidiana dell’autore, la sua città natale, Trieste, e la sua cultura ebraica.

Il titolo “Scorciatoie” sta ad indicare la capacità di Saba di descrivere la realtà in modo semplice e diretto, senza inutili fronzoli e ornamenti, e di andare dritto al cuore della questione. Inoltre, l’idea di scorciatoie fa riferimento alla capacità dell’autore di creare un legame tra la sua esperienza personale e la realtà universale, e di usare la poesia come un mezzo per comprendere la vita.

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I toasts di Mallarmè

I toasts sono una raccolta di poesie scritte da Stéphane Mallarmé nel 1866. Queste poesie sono state scritte per celebrare gli amici e i colleghi dell’autore, e sono caratterizzate da uno stile molto musicale e formale. Mallarmé utilizza un linguaggio ricco e complesso, pieno di giochi di parole e di riferimenti letterari, che crea un’atmosfera di mistero e di simbolismo.

I toasts di Mallarmé sono scritti in uno stile molto musicale, che rende la loro lettura molto piacevole. L’autore utilizza rime e ritmi per creare una melodia che accompagna il significato delle sue parole.

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I calligrammi di Apollinaire

I calligrammi di Guillaume Apollinaire sono una forma di poesia visiva che combina parole e immagini per creare un’espressione unica e originale. Il termine “calligramma” è stato coniato da Apollinaire stesso, che li utilizzò per la prima volta nel 1913 nel suo libro di poesie “Alcools”. In questa raccolta, il poeta utilizzava la forma delle parole per creare immagini, come ad esempio una bottiglia di vino che assume la forma di una donna. La sua poesia visiva ha influenzato molte altre forme di espressione artistica, come il cubismo e il creazionismo.

I calligrammi di Apollinaire spesso avevano un significato politico o sociale, come ad esempio il famoso “Calligramma della Torre Eiffel” in cui utilizzava la celebre attrazione parigina come simbolo della forza della Francia contro i tedeschi durante la prima guerra mondiale. Inoltre, Apollinaire è stato anche uno dei fondatori del movimento Surrealista, che ha utilizzato la poesia visiva come mezzo per esprimere l’inconscio e le emozioni.

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I telegrammi di Eleonora Duse

I telegrammi sono una raccolta di messaggi telegrafici inviati dall’attrice italiana Eleonora Duse durante la sua carriera. L’uso del telegrafo consentiva all’attrice di mantenere i contatti con i suoi colleghi e i suoi amici mentre era in tournée, e di organizzare gli spettacoli in modo più efficiente. Questi messaggi ci offrono una finestra sulla sua vita privata e sulla sua carriera, mostrando il suo impegno e la sua dedizione al lavoro.

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Le tragedie in due battute di Campanile

Le tragedie in due battute sono una raccolta di brevi testi scritti dallo scrittore e umorista italiano Achille Campanile. Queste tragedie sono caratterizzate dalla loro brevità e dall’utilizzo di un umorismo nero e surreale. Lo stile combina l’ironia e l’assurdo, creando un effetto comico che contrasta con i temi drammatici trattati: la morte, la solitudine e la follia.

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I biglietti agli amici di Tondelli

I biglietti agli amici di Pier Vittorio Tondelli sono un’opera unica e indubbiamente anomala per l’autore, conosciuto per una produzione narrativa e saggistica di più ampio respiro. Il libro, scritto sulla soglia dei trent’anni, fu originariamente composto da ventiquattro biglietti da recapitare ai diretti interessati il giorno di Natale del 1986.

L’opera è descritta come “vedere il lato bello, accontentarsi del momento migliore, fidarsi di quest’abbraccio e non chiedere altro perché la sua vita è solo sua e per quanto tu voglia, per quanto ti faccia impazzire non gliela cambierai in tuo favore.”

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Gli shorts di Auden

Gli shorts di W.H. Auden sono un’opera sorprendente e innovativa. Composti tra il 1929 e il 1972, questi brevi poemetti offrono una sperimentazione formale e tematica unica nel panorama della poesia del XX secolo. Innanzitutto, gli shorts si distinguono per la loro brevità e concisione. Con pochi versi e spesso una struttura aforistica, presentano massime o riflessioni in modo sintetico, rendendoli facili da leggere ma al contempo densi di significato. Affrontano temi eterogenei come amore, politica, religione, filosofia, società e natura, ma ciò che li accomuna è l’approccio ironico e dissacrante di Auden che utilizza spesso la parodia e l’autoironia per criticare i luoghi comuni e le idee convenzionali. Gli shorts sono significativi perché hanno anticipato tendenze come la poesia minimalista, la poesia concettuale e la poesia performativa.

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I razzi di Baudelaire

L’originale francese “Fusée” viene tradotto con razzi, fuochi d’artificio, botti. Giovanni Raboni sottolinea che questa parola è ispirata a Baudelaire dalla lettura di un passo di “Marginalia” di E.A. Poe. (opera quasi sconosciuta di Poe che qui non narra le sue storie macabre, non redige saggi, né scrive poesie. Qui si mette a nudo, come Baudelaire, e scrive di getto, senza costruire né inventare. Qui troviamo l’intimità dell’uomo prima ancora che dello scrittore). La funzione dei Razzi doveva essere quella di indurre nel lettore uno choc estetico, presentandogli un fuoco d’artificio di idee non per forza condivise visceralmente dall’autore, e, anzi, tanto più efficaci quanto più in contrasto con la sua ieratica impassibilità di dandy, di uomo senza convinzioni.

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L’antibiblioteca e l’importanza dei libri non letti

Succede spesso che il lavoro, le responsabilità e le circostanze della vita facciano in modo che gli scaffali delle nostre librerie (o le memorie dei nostri e-reader) si riempiano di libri che al momento dell’acquisto ritenevamo necessari o assolutamente da leggere, ma che poi abbandoniamo o addirittura dimentichiamo.

I giapponesi hanno coniato una parola: tsundoku – indica questa frenesia nell’accumulo per cui si acquistano libri senza però poi trovare il tempo e/o la voglia di leggerli. Letteralmente significa: acquistare materiali di lettura e accumularli da qualche parte per un po’.

Questo non riuscire a stare al passo spesso ci fa sentire in colpa, soprattutto se siamo dei bibliofili o dei lettori forti. Ma questo sentimento di disagio non ha ragione d’essere.

Il filosofo libanese Nassim Nicholas Taleb, nel suo saggio Il cigno nero, ci spiega perché:

Umberto Eco appartiene a un raro genere di studiosi enciclopedici, perspicaci e per niente noiosi. Possiede un’ampia biblioteca personale (di trentamila volumi), e classifica i visitatori di tale biblioteca in due categorie: coloro che reagiscono dicendo: «Caspita, professor Eco, che biblioteca! Li ha letti tutti questi libri?», e una piccola minoranza che capisce che una biblioteca personale non è un’appendice del proprio Io, ma uno strumento di ricerca. I libri non letti sono molto più preziosi di quelli letti. Una biblioteca dovrebbe contenere tutti i libri su argomenti sconosciuti che i nostri mezzi finanziari, le rate del mutuo e le difficoltà del mercato immobiliare ci consentono di acquistare. Via via che avanziamo nell’età accumuliamo più conoscenze e più libri, e i libri non letti che ci guardano minacciosi dagli scaffali sono sempre più numerosi. Anzi, più si conosce e più si allungano gli scaffali dei libri non letti. Chiamiamo l’insieme di tali libri «antibiblioteca».

Eco amava circondarsi di libri perché questi costituivano per lui un costante promemoria di tutte le cose che non sapeva. Quindi la sua sterminata biblioteca lo rendeva intellettualmente affamato e perennemente curioso. Ecco perché una collezione in continua crescita di libri che non abbiamo ancora letto non dovrebbe essere motivo di ansia, ma di orgoglio.

Un’antibiblioteca è un potente promemoria dei nostri limiti: la grande quantità di cose che non conosciamo, che conosciamo parzialmente o che un giorno capiremo essere completamente sbagliate. Vivendo quotidianamente con quel promemoria, possiamo spingerci verso il tipo di umiltà intellettuale che migliora il processo decisionale e guida l’apprendimento.

Anche il critico letterario Piero Dorfles riconosce l’importanza di avere più libri possibile in casa (quindi anche non letti), soprattutto per accendere l’interesse dei lettori più giovani:

È importante che i genitori tengano in casa il maggior numero di libri possibile. La lettura poi può dare degli stimoli straordinari: permette di viaggiare, di vivere, di fare conoscenza con quello che altrimenti ci potrebbe spaventare, come ciò che è diverso e lontano da noi.

Ci sono, poi, alcune proprietà emergenti dell’antibiblioteca piuttosto bizzarre che ci spiega con ironia lo stesso Umberto Eco in una lectio magistralis tenuta a Torino:

Ogni tanto accade che un giorno prendiamo in mano uno di questi libri trascurati, incominciamo a leggiucchiarlo, e ci accorgiamo che sapevamo già tutto quel che diceva. Questo singolare fenomeno, di cui molti potranno testimoniare, ha solo tre spiegazioni ragionevoli.

La prima è che, avendo nel corso degli anni toccato varie volte quel libro, per spostarlo, spolverarlo, anche soltanto per scostarlo onde poterne afferrare un altro, qualcosa del suo sapere si è trasmesso, attraverso i nostri polpastrelli, al nostro cervello, e noi lo abbiamo letto tattilmente, come se fosse in alfabeto Braille. Io non credo ai fenomeni paranormali, ma in questo caso il fenomeno è normalissimo, certificato dall’esperienza quotidiana.

La seconda spiegazione è che non è vero che quel libro non lo abbiamo letto: ogni volta che lo si spostava vi si gettava uno sguardo, si apriva qualche pagina a caso, qualcosa nella grafica, nella consistenza della carta, nei colori, parlava di un’epoca, di un ambiente. E così, poco per volta, di quel libro se ne è assorbita gran parte.

La terza spiegazione è che mentre gli anni passavano leggevamo altri libri in cui si parlava anche di quello, così che senza rendercene conto abbiamo appreso che cosa dicesse (sia che si trattasse di un libro celebre, di cui tutti parlavano, sia che fosse un libro banale, dalle idee così comuni che le ritrovavamo continuamente altrove).

In conclusione, non ha senso rimproverarsi perché compriamo troppi libri o abbiamo una lista di letture che, come aveva capito Borges, non potrà che essere infinita (quando ci immergiamo nella lettura di un libro è come se entrassimo in un labirinto: un testo, direttamente o indirettamente, non può non rimandare a un altro testo, e così via.). Quel mucchio di libri che non abbiamo letto e che non potremo leggere è davvero un segno della nostra ignoranza. Ma avere la misura della nostra ignoranza, come ci insegna Socrate, è il primo passo per diventare esseri umani migliori.

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Leggere meno per leggere meglio

Questa pandemia ci sta sottoponendo a stress-test che non avremmo mai dovuto affrontare. A cascata, stiamo assistendo a ridefinizioni di significati e certezze consolidate. I cambiamenti più drastici e, a volte drammatici, riguardano il nostro modo di vivere il tempo. La consapevolezza del suo valore è aumentata.

Tutto questo come si riflette sulla lettura? Il tempo che le dedichiamo è legato all’importanza che le attribuiamo. E dipende anche da cosa intendiamo per lettura. Se in quest’atto includiamo tutte le attività e i dispositivi digitali, indubbiamente oggi leggiamo di più. Ma lo facciamo in maniera frammentata. Consumiamo pezzetti di informazione nelle chat, sui siti web, nelle email, oltre che sui blog e sui siti di approfondimento. Ma essere dei bravi scanner non significa automaticamente comprendere.

Leggere un libro è un altra cosa. L’assimilazione del suo contenuto non può che essere un processo lento. Eppure, citando i dati sulla scarsa abitudine alla lettura degli italiani, si insiste spesso sul fatto che bisogna leggere di più. E leggere di più, visto che il tempo a disposizione è sempre lo stesso, significa imparare a leggere più velocemente. Il rischio è trasformare la lettura in una performance e perdere di vista il suo valore fondamentale: non la cultura, non il nozionismo, ma l’educazione alla complessità. Perché è questo che fanno o dovrebbero fare i libri migliori: fornirci strumenti per gestire l’incertezza della vita e dare un senso alla nostra irrilevanza nell’Universo.

Nell’ultimo numero della sua brillante newsletter, Antonio Dini prova ad andare contro corrente e a riflettere proprio su quanto sia sensato incoraggiare le persone a leggere di più. A suo modo di vedere non lo è (ma anche qui, dipende dagli scopi e dalla professione: Vanni Santoni direbbe che uno scrittore deve abituarsi a leggere molto e velocemente). Allo stesso modo anche chi pratica lo tsundoku, cioè accumula compulsivamente libri senza leggerli, farebbe un esercizio sterile (Nassim Nicholas Taleb, però, la pensa diversamente. E anche Piero Dorfles).

Abbiamo veramente bisogno di leggere tutti questi libri? – dice Antonio Dini – È ragionevole dire di no. Ha senso leggere meno ma meglio, in modo più sensato oserei dire. Facendo attenzione a quello che si legge e perché, se è una lettura che deve passare delle informazioni utili, oppure gustando i tempi dell’intrattenimento se è una lettura fatta per il piacere della storia e della sua scrittura.

È sicuramente vero che, se ci lasciamo dominare troppo dal marketing letterario, andando tutte le volte dietro alle classifiche e ai libri premiati, se ci lasciamo condizionare sempre di più dagli algoritmi diabolicamente precisi dei suggerimenti di Amazon, rischiamo di non capire più perché abbiamo bisogno di una certa lettura e quali sono i nostri interessi e le nostre idiosincrasie.

La pars construens di questo ragionamento? – conclude Dini – Leggete meno. Leggete le cose che vi piacciono e quelle che sono ragionevolmente utili, se proprio dovete.

È anche un questione di maturità superare quel momentaneo delirio di onnipotenza che ci porta a credere di dover leggere tutto quello che ci interessa. Anche limitandoci a quello che ci piace, sarebbe umanamente impossibile. Umberto Eco, lo aveva capito bene:

Quanto tempo ci vuole per leggere un libro? Parlando sempre dal punto di vista del lettore comune, che dedica alla lettura solo alcune ore del giorno, azzarderei per un’opera di medio volume almeno quattro giorni. È vero che per leggere Proust o san Tommaso occorrono mesi, ma ci sono capolavori che si leggono in un giorno. Atteniamoci dunque alla media di quattro giorni. Ora quattro giorni per ogni opera registrata dal Dizionario Bompiani farebbe 65.400 giorni: dividete per 365 e avete quasi 180 anni. Il ragionamento non fa una grinza. Nessuno può aver letto o leggere tutte le opere che contano.