“La straniera“ di Claudia Durastanti
“La straniera” è un romanzo molto difficile da definire, perché è composto da tanti livelli. È un’autobiografia, è un romanzo di formazione, un memoir familiare e un’autofiction che, fin dal principio, si interroga sulla sua stessa autenticità (i genitori dell’autrice, all’inizio del libro, raccontano due storie differenti del loro primo incontro), una storia di emigrazione, un’indagine sulla diversità.
Ma è anche un saggio sulla capacità di raccontare e raccontarsi, sulle possibilità della lingua, che assume un’importanza fondamentale, perché entrambi i genitori della protagonista sono sordi. Proprio questa disabilità, affrontata con coraggio ma anche con incoscienza, è il motore della storia e allo stesso tempo la fonte che alimenta l’alienazione e lo spaesamento che, con sfumature diverse, permeano tutto il libro.
Leggendolo si intuisce come sia stato per l’autrice un racconto necessario, perché il dolore e lo straniamento che l’hanno attraversata dovevano trovare un modo per venire fuori. Claudia Durastanti ci riesce solo a distanza di anni. Lei stessa, con la citazione di Emily Dickinson, inserita all’inizio, ci consegna una chiave importante per capire quest’urgenza: “Dopo un grande dolore, viene un sentimento formale.”
Se vogliamo trovare una definizione a buon mercato, potremmo definire “La straniera” una lunga lettera d’amore.
La narrazione è non lineare e si articola in una sequenza di eventi che tracciano l’evoluzione del personaggio principale: l’infanzia passata a Brooklyn, il trasferimento a sei anni in Basilicata con la madre, la separazione dei suoi genitori, il rapimento da parte del padre, la scoperta della letteratura come rifugio, la difficile relazione con i coetanei e infine il suo trasferimento a Londra, una città che decide di abitare ma che sembra rifiutarla.
Si tratta di un racconto molto personale, ma allo stesso tempo universale. Chiunque deve fare i conti, prima o poi, con la sua identità e il posto che intende occupare nel mondo. Il libro di Claudia Durastanti è prezioso perché, senza pudore, ci confessa che possiamo acquisire la consapevolezza che ci serve accettando un paradosso: diventiamo chi siamo solo se abbandoniamo il luogo di nascita, cioè ci emancipiamo da quelle origini che in parte ci definiscono.