“Ma gli androidi sognano pecore elettriche?“ di Philip K. Dick
Ci ho messo molti anni prima di decidermi a leggere questo romanzo.
Chi ha visto “Blade runner” di Ridley Scott, il film capolavoro che ha tratto ispirazione dal libro di Dick, si è già nutrito di quell’immaginario cyberpunk: paesaggi urbani avveniristici con una pioggia tossica e perenne, quartieri popolari con pubblicità olografiche, insegne al neon e ogni genere di botteghe e negozi di contrabbando e, soprattutto, un ricchissimo sottobosco di personaggi che vivono ai margini della città o al limite tra ciò che è consentito e ciò che non lo è.
Allo stesso modo è quasi impossibile non vedere il viso di Harrison Ford quando entra in scena il cacciatore di taglie Rick Deckard. Ma già dopo qualche pagina si capisce che il protagonista di Philip Dick è molto diverso da quello di Ridley Scott.
Il primo ha più spessore e, inaspettatamente, una vita domestica (con una moglie!), che nel film è quasi assente (il personaggio di Harrison Ford per quasi tutto il tempo è un solitario: vive per conto suo e non sembra gradire più di tanto la compagnia di altri esseri umani).
Dick ha scritto il romanzo nel 1968 e, ancora una volta, è impressionante come la migliore fantascienza sembra parlarci di un mondo non molto lontano, che è dietro l’angolo, anche se è stato immaginato dalla mente di uno scrittore cinquant’anni fa.
Il tema principale è lo stesso: gli androidi (o replicanti) e la profonda riflessione su ciò che è umano e ciò che non lo è. Un dilemma filosofico gigantesco e sempre più attuale (visto lo sviluppo esponenziale delle intelligenze artificiali).
Un tema secondario, ma non troppo, che si intuisce già dal titolo e che troverete sviluppato solo nel romanzo è quello degli animali. Nel futuro immaginato da Dick questi sono diventati sempre più rari e sono stati sostituiti quasi del tutto da animali elettrici, nell’aspetto simili in tutto e per tutto ad un animale normale, ma di fatto robot progettati e programmati in maniera più o meno sofisticata. Quindi un animale è uno status symbol. Il suo valore cresce a dismisura se è vivo e non elettrico.
Ma c’è un livello più sottile. È come se l’accudimento di un animale rappresentasse una sorta di riparazione per i danni irreparabili arrecati alla Terra e ai suoi ecosistemi.
Prendersi cura di un animale porta gli uomini a considerarsi empatici e buoni, ma, nella visione di Philip Dick, forse è più un modo per pulirsi la conoscenza.
In ultima istanza, avere un animale serve a illudersi di provare ancora un briciolo di umanità, anche se gli uomini non si comportano molto diversamente dagli androidi a cui danno la caccia e che considerano inferiori.