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“Guida sentimentale di Venezia” di Diego Valeri

Questo libricino è uno dei più belli che siano stati scritti su Venezia. Il poeta Diego Valeri riesce benissimo nell’intento di suggestionare ed emozionare il lettore.

Lo fa mettendo in luce lo stretto rapporto che c’è tra Venezia e la pittura.

“Qui tutto diventa, tutto finisce a essere pittura”,

dice Valeri.

“Perché contro questo cielo, queste acque, quest’aria, che arcanamente tramutano la pietra e il mattone e le loro geometrie in puro colore, in puri valori pittorici, non c’è proprio nulla da fare”.

È necessario arrendersi e immergersi, quindi, nella luce della città lagunare. Questa cambia velocemente da un’ora all’altra, ma anche da un minuto all’altro del giorno. Lo si capisce sostando su uno dei tanti ponti e facendo attenzione al gioco di rimandi e riflessi tra architettura e acqua. La Laguna è il medium di Venezia.

Essendo un poeta, Diego Valeri non può non riconoscere quanto sia importante perdersi, camminando a piedi (e non saltando da un vaporetto all’altro), anche a Venezia, per entrare in una dimensione di scoperta, estetica ma non solo, più autentica, che sfugga dalla trappola della volgarizzazione turistica, dall’impressione superficiale. Infatti dice:

“Andare in giro per calli e campi, senza un itinerario prestabilito, è forse il più bel piacere che a Venezia uno possa prendersi”.

Questa non è una guida turistica, ma sentimentale di Venezia. Merita di essere letta, magari assieme a “Fondamenta degli incurabili” di Brodskij e a “Venezia è un pesce” di Tiziano Scarpa.

“L’informazione” di James Gleick

Nel primo capitolo dell’ultimo libro di James Gleick, “L’informazione”, si parla di uno strano e potente mezzo di comunicazione utilizzato dalla popolazione africana del Niger: i “tamburi parlanti”, scoperto nel lontano 1841.

Questi strumenti, suonati in un certo modo, riuscivano a portare un messaggio anche a distanza di centinaia di chilometri, passando di villaggio in villaggio e, in maniera altrettanto straordinaria, potevano essere capiti come si trattasse di una lingua materna dagli ascoltatori nativi.

In pratica, si trattava dei progenitori dei social network di oggi.

I messaggi erano in grado di propagarsi per lunghissime distanze, replicandosi di villaggio in villaggio. Proprio quello che succede con un retweet o una condivisione, che a volte rendono virale un messaggio facendolo rimbalzare da una rete all’altra.

Un missionario, Roger Clarke, provò a dare una spiegazione:

I segnali rappresentano i suoni delle sillabe di espressioni convenzionali di carattere tradizionale e fortemente poetico.

All’inizio i tamburi parlanti vennero accostati erroneamente al codice Morse.

Poiché le lingue africane, come quasi tutte le seimila lingue parlate nel mondo moderno, tranne poche decine, non avevano un alfabeto, i tamburi metamorfizzavano la lingua parlata.

Un altro missionario, John Carrington, si rese conto che i tamburi trasmettevano non solo annunci e avvertimenti ma anche preghiere, poesie e addirittura battute di spirito. I suonatori di tamburi non mandavano segnali ma parlavano una lingua speciale, adattata.

Carrington pubblicò le sue scoperte nel 1949 in un libretto chiamato The Talking Drum of Africa.

Una delle chiavi per risolvere l’enigma stava in una caratteristica delle lingue africane: sono lingue tonali, il cui significato è determinato dall’innalzamento e dall’abbassamento del tono e non solo dalle distinzioni fra consonanti e vocali.

Quando le lingue parlate dall’Africa hanno dato al tono un ruolo fondamentale, il linguaggio dei tamburi ha dovuto fare un difficile passo ulteriore, poiché impiegava il tono e solo il tono.

Così, nel mettere in corrispondenza la lingua parlata con quella dei tamburi, si perdeva informazione. La comunicazione con i tamburi, quindi, presentava una limitazione non indifferente.

Avendo ridotto il parlato, con tutta la sua ricchezza di suoni, a un codice così minimo, in che modo i tamburi potevano distinguere le varie parole?

Carrington scoprì che era possibile perché un suonatore di tamburo aggiungeva “una breve frase” a ogni breve parola. Le percussioni aggiuntive, in questo modo, fornivano il sufficiente contesto alla comprensione. Le lunghe code stereotipate, con la loro ridondanza, avevano raggiunto l’obiettivo di eliminare l’ambiguità.

Anche in questo caso l’accostamento è piuttosto naturale: le “code aggiuntive” fanno pensare immediatamente agli hashtag utilizzati nei principali social network di oggi, proprio per dare contesto (oltre che ricercabilità).

Adesso i tamburi parlanti sono quasi scomparsi dall’Africa in proporzione con l’aumento della scolarizzazione. E per alcuni africani l’evoluzione della tecnologia delle comunicazioni è passata direttamente dai tamburi parlanti alla telefonia mobile.