“Venezia minima” di Predrag Matvejević è uscito per prima volta nel 2002 ed è il vincitore della prima edizione del Premio Strega Europeo.
L’autore è stato uno scrittore e accademico croato, molto esperto di cultura dei Paesi Mediterranei. Fu costretto a scappare dal suo Paese con lo scoppio delle guerre jugoslave e visse a Roma dal 1994 al 2007.
Nella prefazione Raffaele La Capria parla della difficoltà di descrivere una città che è già déjà vu prima ancora che i nostri occhi comincino a osservarla, per le infinite descrizioni che si sono stratificate nel corso dei secoli. Ed è proprio un’archeologia della mente, una sguardo che riesca a penetrare questi strati di rappresentazione per arrivare a una Venezia che ci racconti qualcosa di nuovo e non costruito per gratificarci, la strategia usata da Matvejević per rapportarsi a Venezia.
Personalmente mi hanno colpito due cose. L’enfasi sui materiali: la ruggine di un cardine o una sbarra di ferro (dipinte nei loro quadri anche da Tintoretto e Tiziano), la marcescenza o pietrificazione di un palo segnaletico fatto di rovere o castagno, i cocci di terracotta che venivano utilizzati per rafforzare gli argini e le fondamenta raccontano spesso ciò che si è perso delle origini di questa città unica al mondo. E poi gli odori, come quelli della salsedine, delle alghe e delle acque torbide dei canali minori della laguna veneta, a volte poco gradevoli e percepibili abbassandosi quasi a pelo d’acqua, che restituiscono brutalmente un’immagine sensoriale dell’equilibrio, sempre precario, tra Natura e civiltà su cui si regge la vita di Venezia.
Lo sguardo attento e quasi microscopico di Predrag Matvejević trasforma le pietre e i cocci di Venezia in frattali: osservati da vicino, con rispetto e attenzione, ci restituiscono il racconto di un’intera città. I materiali, anche quelli di scarto, diventano fotografie di un passato che non ha lasciato altre tracce.
(Ultima modifica: 25 Febbraio 2023)
