12 cose che ho imparato co-progettando la Scuola Open Source

Dopo aver risposto a una call della quale mi ero quasi dimenticato, vengo chiamato da Alessandro Tartaglia che mi dice: «Ciao Paolo. Io ti avrei scelto per il laboratorio X. Ci sei?». Dopo 10 secondi di spaesamento, che mi sono serviti per capire che non si trattava dell’ennesimo call center che vuole propormi un servizio per diventare ricco con il Forex, il mio cervello elabora le informazioni necessarie. Ah, ok. Ci sono.

Sono stato selezionato assieme ad altri 60 ragazzi per partecipare ai laboratori XYZ di co-progettazione della Scuola Open Source a Bari. Fico.

I partecipanti sono stati divisi in tre laboratori che operavano (almeno nelle intenzioni) come vasi comunicanti: X per l’Identità (brand or identity designers, typo addicted, strategists, web developers), Y per gli Strumenti (makers, hackers, developers, engineers, digital artisans, pirates) e Z per i Processi (service designers, design thinkers, digital humanists, social and technological innovators, economists).

Prima di raccontarvi cosa ho imparato nei miei 12 giorni (dal 18 al 30 luglio) nel capoluogo pugliese, però una domanda sorge spontanea:

Cos’è la Scuola Open Source?

Allora. Anche se i laboratori di XYZ si sono conclusi e hanno prodotto i loro output, è ancora una risposta aperta. Forse è più facile dire cosa la Scuola Open Source vuole essere:

Centro di didattica, ricerca e consulenza – tecnologica e sociale – per l’industria, il commercio e l’artigianato (digitale e non).

Ma, soprattutto, la Scuola Open Source, aspira a essere:

una comunità di artigiani digitali, maker, imprenditori, designer, programmatori, pirati, umanisti, ricercatori, sognatori e innovatori. Agiamo assieme, sperimentando nuovi modelli didattici e pratiche innovative per cambiare il mondo che viviamo. Ci occupiamo di ricerca e consulenza per il pubblico e il privato, didattica “open source” per ragazzi, adulti, inoccupati, professionisti, pensionati e manager. Sviluppiamo idee per prodotti e servizi, tecnologia e capitale umano, attraverso progetti d’innovazione sociale e tecnologica, aumentando il valore dei singoli attori che prendono parte al processo. Siamo un hackerspace, un fablab e un centro di promozione del riuso.

Detto questo, ecco le 12 lezioni che ho distillato in queste due folli e intense settimane di lavoro e socialità.

1) L’innovazione è sempre sociale, altrimenti è speculazione sull’ignoranza degli altri.

C’è scritto anche nel business plan ed è un punto fondamentale. Tutto quello che la SOS (Scuola Open Source) crea e produce non deve avere apportare semplicemente benefici economici ai committenti. Ma deve creare soprattutto valore, sotto forma di strumenti e know-how, per la comunità.

È qui che entra in gioco la parte open source di SOS. Ogni output (software, contenuti didattici, ma anche metodologie) di SOS verrà rilasciato assieme al sorgente. Che vuol dire? Che potrà essere replicato, modificato, migliorato. Naturalmente per fare questo serviranno delle licenze. Se non saranno sufficienti le Creative Commons bisognerà crearne di nuove.

2) L’innovazione passa anche attraverso la diffusione e l’accessibilità degli Open Data.

Credo che i laboratori Y e Z ci abbiano ragionato parecchio. La Scuola Open Source produrrà degli output e questi output, per essere utili, dovranno essere rilasciati anche come Open Data, facilmente accessibili e modificabili.

È una questione di fondamentale importanza, anche sociale, che riguarda tutti. In Italia ci si lamenta sempre più spesso del fatto che finché il Sistema è quello che è e c’è corruzione, le cose non potranno mai migliorare. Ebbene la corruzione si combatte con la trasparenza e la trasparenza oggi deve e può passare attraverso gli Open Data.

Francesco Piersoft Paolicelli ha tenuto una bellissima talk proprio su questo: la potenza degli Open Data è l’opera derivata.

Al discorso sulla diffusione e accessibilità degli Open Data, è collegato anche quello sulla reperibilità delle pubblicazioni scientifiche. Se non conoscete la sua storia e le sue battaglie, documentatevi per bene su Aaron Swartz: era un hacker molto intelligente ed estremamente sensibile che era fermamente convinto che le ricerche e i paper degli scienziati del mondo dovessero essere liberamente accessibili (nella realtà, ancora oggi, ci sono grossi gruppi editoriali che speculano su queste ricerche e le vendono a prezzi che possono diventare anche molto alti: questo ostacola la circolazione delle idee e l’avanzamento della ricerca, anche in settori decisivi come quello medico).

Qui trovate il testo integrale del Guerilla Open Access Manifesto scritto da Aaron Swartz nel 2008.

3) Più che resilienti, bisogna diventare anti-fragili.

Già durante i primi giorni di XYZ, ho scoperto un nuovo bellissimo concetto, l’anti-fragilità. Ne parla Nassim Nicholas Taleb nel suo libro Antifragile. Prosperare nel disordine.

In un suo articolo, Taleb spiega:

L’antifragilità va oltre il concetto di «resilienza elastica» e di robustezza. Una cosa resiliente resiste agli shock ma rimane la stessa di prima: l’antifragile dà luogo a una cosa migliore. Questa proprietà sottende tutto quanto cambia nel tempo: l’evoluzione, la cultura, le idee, le rivoluzioni, i sistemi politici, l’innovazione tecnologica, il successo culturale ed economico, la sopravvivenza delle organizzazioni, le ricette migliori (come ad esempio il brodo di pollo o la tartara con una goccia di cognac), l’affermazione di città, culture e ordinamenti giuridici, le foreste equatoriali, la resistenza ai batteri e via dicendo, fino a includere l’esistenza stessa della nostra specie su questo pianeta. L’antifragilità stabilisce il confine tra ciò che è vivente e organico (o complesso), come il corpo umano e ciò che è inerte, come ad esempio un oggetto fisico come la spillatrice sulla vostra scrivania.

L’antifragilità ama la casualità e l’incertezza, il che significa anche amare gli errori, o meglio una particolare classe di errori. L’antifragilità possiede una proprietà unica nel suo genere, che ci permette di venire alle prese con l’ignoto, di fare certe cose senza capirle e di farle bene.

4) Non esiste pensiero, relazione o sapere, senza dialogo.

È la lezione illuminante emersa dalla talk di Salvatore Zingale.


Come nota a margine, aggiungo una considerazione raccolta al volo, ma molto densa:

Bisogna andare nei luoghi dove accadono le cose, essere lì in mezzo.

5) Per fondare un mondo nuovo, servono nuove parole.

Su questo punto ha insistito parecchio Giovanni Anceschi durante i laboratori XYZ.

Le parole possono essere un vincolo, perché ci legano alla storia e alla tradizione. Per operare un rifondazione bisogna inventarsi un nuovo lessico.

È per questo che Emmanuele Curti ha detto:

Tutti dichiarano il funerale del pensiero, ma nessuno propone un pensiero nuovo.

6) Il design è la capacità di far accadere le cose.

Questa è la definizione provocatoria di Alessandro Tartaglia. Ma è piuttosto efficace.

Dopo la talk irriverente di Giovanni Lussu che ha affermato che la scuola tedesca della Bauhaus ha prodotto solo obbrobri e i designer oggi non servono più a nulla (nessuno, comunque, l’ha preso alla lettera: forse si trattava di un umorismo un po’ sottile), noi di X abbiamo discusso un bel po’ sull’importanza del design oggi.

La conclusione è che il design continua a restare una disciplina fondamentale, che ormai investe moltissimi ambiti. Non interessa solo la grafica, ma anche l’architettura dell’informazione e i processi. Quindi potremmo dire che è ciò che tiene insieme e lega i laboratori XYZ della Scuola Open Source.

7) Il conflitto, epurato dalla violenza, è un elemento costruttivo.

Sembra un paradosso, ma non lo è. È quella situazione che si genera quando elementi molto diversi ed eterogenei vengono a contatto. Se si riesce a controllare il caos con l’anti-fragilità di cui parla Taleb, non possono che venir fuori configurazioni interessanti. Come XYZ.

Annibale D’Elia ha detto:

Se nessuno si arrabbia, non stai cambiando niente.

8) Se siamo indietro, possiamo sperimentare tutto.

Un altro apparente paradosso di Annibale D’Elia. Pensiamo al Sud d’Italia, al digital divide, all’analfabetismo funzionale e alla scarsa information literacy.

Invece di lamentarci della mancanza di considerazione da parte del Governo, dovremmo recuperare responsabilità e attivismo proprio per sfruttare gli spazi di azione che derivano dal nostro essere gli ultimi della classe.

9) Molte conoscenze possono essere tramesse per osmosi.

Ho scelto di partecipare al laboratorio X poiché, essendo laureato in psicologia, mi interessava molto la costruzione dell’identità della Scuola Open Source.

Una volta lì, ho scoperto che il 99 % dei ragazzi di X erano tutti designer di formazione e professione, che masticavano Illustrator e grafica vettoriale a colazione.

Ci sono stati dei momenti in cui mi sono sentito un po’ fuori dai giochi (sicuramente avrei nuotato meglio nell’acqua del laboratorio Z), ma per certi versi è stato più interessante così.

Ho imparato tanto semplicemente osservando e imitando i miei compagni più bravi. E adesso so cosa fare con Adobe Illustrator (a livello basic), cos’è un punto di ancoraggio, come usare i livelli e modificare un font open source.

Per fare un altro esempio, al di fuori di qualsiasi discorso sul design (o forse tutto l’opposto), un pomeriggio ci siamo trovati con Anceschi e altri ragazzi alla Gelateria Gentile, quella delle granite buonissime vicino al Castello (vedi mappa sotto).

Io mi stavo orientando sull’ottima granita alla mandorla, quando Anceschi ci chiede:

L’avete provato il caffè leccese?

Io e gli altri ci guardiamo perplessi. No, non lo conosciamo.

Allora dovete provarlo. È buonissimo. L’ho scoperto anch’io qui a Bari!

Era buonissimo davvero. L’idea è semplice: ci si fa portare un caffè normale in tazzina, e un bicchiere con del ghiaccio e del latte di mandorla. Si versa il caffè nel bicchiere e si mescola a piacimento.

Ebbene, per osmosi la ricetta del caffè leccese è passata dalla Gelateria Gentile ad Anceschi a noi. Nel frattempo è arrivata sicuramente a Milano e in calabria (dove sto passando le vancanze di agosto). 🙂


10) Molti saperi diffusi nel territorio hanno bisogno di hub, non di reti.

L’ispirazione per questo punto mi è venuta da Luca Tamburrino (che con il suo Comincenter è un hub importante per la città di Matera).

La signora che fa la pasta di casa a Bari Vecchia non ha bisogno di reti. Ha già la sua rete (il vicinato, la famiglia allargata, ecc.). A lei serve un hub che colleghi la sua rete con le altre. È quello che è diventata la SOS per la signora Nunzia. La Scuola Open Source ha collegato la sua rete fatta di partecipanti, tutor e docenti a quella della signora Nunzia, che ha preparato il pranzo ogni giorno facendosi sicuramente aiutare da parenti e amiche.

Stesso discorso per un giovane disoccupato del Sud con titoli, talento ed esperienza. Non deve per forza emigrare. Costruirsi un’altra rete. Può cercare un hub che colleghi le sue reti di appartenenza a reti più forti.

Creare i collegamenti giusti è tutt’altro che semplice e gli ostacoli sono tanti. Ma la Scuola Open Source fa ben sperare.

11) Zygmunt Bauman ha sempre ragione.

Tutto è liquido. E se non lo è ancora, lo diventerà.

Oggi per sopravvivere, in azienda ma non solo, serve un forma mentis fluida e reattiva.

A livello professionale, non ci si può più accontentare di quello che si è studiato all’università. Bisogna aggiornarsi e studiare tutta la vita. E bisogna avere competenze trasversali e multidisciplinari per essere competitivi. Ad esempio, un giornalista oggi, oltre alla capacità di scrittura, deve avere competenze di design e di coding. Deve essere in grado in poco tempo di confezionare un articolo adattandolo a diversi formati e schermi, modificando il codice se necessario. Il tutto in mobilità, magari su un tablet.

Bisogna avere anche una struttura di personalità sufficientemente malleabile, per essere in grado di lavorare bene e in maniera efficiente con gruppi di persone anche molto diverse tra di loro.

Agnese Addone, in una sua talk, cita non a caso Bruce Lee che dice: “Be like water, my friend“.

12) Anche l’informalità ha un incredibile potenziale creativo.

Bertram Niessen mi ha sorpreso quando ha detto: “In tutto questo casino (la Scuola Open Source) bisogna implementare anche il cazzeggio“.

Per i latini l’otium era quello spazio libero dedicato alla ricerca intellettuale, contrapposto al negotium, in cui ci si dedicava agli affari e a faccende improrogabili.

I momenti informali, quelli in cui si è più rilassati, spesso sono anche quelli in cui si gioca e ci si diverte di più. Ma perché non implementare anche questa gamification nel nostro lavoro? Alla Scuola Open Source l’abbiamo fatto spesso.

In un mondo ideale tutti i lavori saranno divertenti e piacevoli, perché ognuno farà ciò per cui è più portato e appassionato.

È come dice Steve Jobs (anche se l’ha detto Confucio prima di lui): trova e scegli un lavoro che ami e non lavorerai neanche un giorno della tua vita.

(Ultima modifica: 19 Marzo 2022)

 
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